Il mio primo maestro d’arte si chiamava Antonio Giordano detto u prufissuri o zizzì. Era un uomo aspro e generoso, capace di grande cultura e profondità d’animo. Figura controversa del teatro palermitano, tra le altre cose di lui si diceva che era bravo a far uscire la voce ai suoi attori. Componeva drammi, canzoni e poesie, parlava e scriveva in molte lingue (anche in latino) e possedeva un palermitano bellissimo, che aveva radici nel quartiere di Ballarò, lo stesso da cui proviene la famiglia di mia madre – cosa che me lo rese sin da subito particolarmente familiare. Coi suoi corsi ha iniziato alle arti sceniche molti attori che oggi vediamo su grandi e piccoli schermi.

Io a diciott’anni mi sembrava di non essere niente. Con un diploma classico e scarse prospettive non riuscivo a capire cosa fare della mia vita e così, per disperazione, una settimana prima che chiudessero le iscrizioni all’università, mi precipitai all’ufficio di orientamento universitario dove una psicologa in una seduta lampo ipotizzò che forse potessi essere più versato per le materie umanistiche o artistiche, dato che in quelle scientifiche ricadevo ufficialmente sotto la nomenclatura di “pippa”.

Così optai per la triennale meno impegnativa: il dams, sezione: spettacolo. Ciò suggerirebbe che io avessi una certa inclinazione per i film o il teatro. Niente affatto: a teatro non ci avevo mai messo piede e anche al cinema latitavo.

Ad ogni modo, un aiutino arrivò da mio padre: picchì ‘un parri c’u prufissuri Giordano? il quale, stava allestendo una commedia nel circolo dove mio padre lavorava. E amunì…

Vidi lo spettacolo e mi sorpresi a spanciarmi dalle risate. Gli attori (tra cui Alessio Barone) erano bravissimi. A fine spettacolo il prof. mi squadrò e mi chiese che volessi fare. Bhu, il regista?…

Eh ma per fare il regista devi prima imparare a recitare, la voce, il portamento…

Ok.

La settimana dopo feci un provino di ammissione al suo laboratorio.

Dopo qualche mese mi affidò il ruolo di protagonista in una sua pièce intitolata Balla, balla, Ballarò. Il mio personaggio, Nunzio, era un cantastorie senzatetto che cantava e parlava per un’ora abbondante in palermitano. Le sue ballate erano congegnate per raggiungere apici emotivi con lessico potente e gustoso, poetico ed evocativo.

Il finale poi era particolarmente coinvolgente: in un trasognamento Nunzio ricordava la visione agghiacciante di suo nonno schiacciato da un balcone durante i bombardamenti del 1943. Era evidente che in quella scena Giordano, che da bambino aveva visto le bombe piovergli addosso, stava rievocando un passato particolarmente traumatico. Iniziavo ad entrarci.

Lo zizzì successivamente mi confidò che mi aveva assegnato quel protagonista 1) perché cantavo meno peggio degli altri 2) perché a suo parere non facevo finta di parlare palermitano ma lo parlavo veramente. Dalla sua confessione non trapelavano altre mie qualità. Io non avevo mai dato importanza a quel secondo punto, anzi in quegli anni il palermitano non lo parlavo quasi più: avevo cambiato abitudini nello snodo cruciale in cui da alunno di scuola media della Marinella (quartiere popolare) mi ero trasformato in ginnasiale del Classico.

Ricordo come fosse ieri quel primo giorno delle superiori in cui tutto ciò che ero (abbigliamento, accento, gel in testa) strideva così tanto col resto della classe che quando chiesi di andare in bagno, la professoressa mi domandò cosa ci dovevo andare a fare (drogarmi, spacciare, rapinare una banca).

Insomma il Liceo Giovanni Meli, contesto ben più borghese della scuola media Jack London da cui provenivo, negli anni mi aveva dato una cosiddetta ripulita. A dispetto del poeta da cui prendeva il nome, al Liceo Meli si forgiavano esseri umani anti-dialettali, che discettano in latino e greco, poetano in endecasillabi e si sfidano a singolar tenzone cantando peana, ma a cui non viene insegnato cosa sia una cicaredda o il pozzo dei pazzi di Franco Scaldati.

Al termine dei cinque anni il palermitano e la mia cultura borgatara erano accantonate.

Fu lo zizzì il primo a restituirmeli, sotto forma d’arte e di consapevolezza, affidandomi quel primo personaggio.

L’evento cruciale avvenne poco dopo.

Un caldo pomeriggio, durante una prova di quel primo spettacolo, mi accingevo a provare la ballata di cui sopra. Mentre la intonavo, successe qualcosa di nuovo. Quelle note risuonavano in un posto profondissimo dentro di me ed esplosi in un pianto fluviale. Piangevo che non riuscivo più a smettere. I miei compagni e le mie compagne tentavano invano di capire, di consolarmi, erano scioccati. Piansi talmente tanto che il prof. si vide costretto a mettere fine alla prova, mandandoli tutti, increduli, a casa in attesa che quel rubinetto si estinguesse. Non so bene cosa successe dopo ma per me che ero sempre stato un ragazzino un po’ apatico e indeciso quell’esperienza fu fulminante.

Da dove minchia veniva tutta quell’acqua?

Forse era una prova che dentro di me c’era il mare e che dovevo imparare a navigarlo. Seguii quell’intuizione. E, ad essere sinceri, non ho ancora smesso di seguirla.

*

Giordano è stato un maestro di vita, molti lo hanno considerato alla stregua di un nonno ed io sono fra questi. Mi ha dato un’ammuttatina verso il teatro e credo non mi abbia mai totalmente perdonato per avergli preferito la musica o per certe mie prolungate assenze. Se sono andato a Roma a studiare è perché mi ha preparato e motivato lui. Lì ho potuto scoprire di che pasta ero fatto attraverso altri maestri. Non mi sembra poco.

Non avete l’impressione anche voi che le cose importanti non hanno mai solo un inizio o una sola fine? Ci sono preannunci, corsi e ricorsi, presentimenti. Non si fa altro che cominciare e finire e ricominciare per tutto il tempo, in tutte le direzioni possibili contemporaneamente.

Però credo che quel pianto lo si senta ancora mugghiare nel fondo di molte mie canzoni. 

Rendo grazie al mio maestro per averlo stuzzicato, con la sua arte e con i suoi molti insegnamenti.

In tanti anni di laboratorio non ha mai chiesto un solo centesimo ai suoi allievi. Eppure metteva in regola e pagava sempre anche i novellini, spesso a rischio di rimetterci del proprio.

Cose d’altri tempi.


8 Risposte a “Bomba d’acqua”

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